I dati in nostro possesso ci dicono che dei prigionieri del parmense catturati in Africa orientale più della metà fu detenuta in Kenya, assieme agli altri 75.000 militari italiani rinchiusi nei dodici campi di concentramento presenti nello stato africano (contando anche i civili la cifra saliva 100.00). Dei dodici campi permanenti costruiti in Kenya i prigionieri del parmense furono detenuti principalmente nei campi di Nairobi, Burguret, Gil Gil, Makindu, Ndarugu, Nanyuki (campi nº: 359, 353, 358, 360, 354). Gli ufficiali furono invece detenuti nel campo di Eldoret e Londiani (campi nº: 356, 365). La prigionia in Kenya differì rispetto ad altre forme di prigionia in Africa. I prigionieri italiani detenuti in questi campi nutrivano, per la maggior parte, ancora fiducia nel regime fascista, per questa ragione gli antifascisti si presentano fin dall'inizio come una minoranza silenziosa. A causa della gerarchia razziale vigente nei dominion inglesi, la sorveglianza di bianchi da parte di truppe di colore fu un tema politico scottante. Generalmente male accolto dall'opinione pubblica locale, la costituzione di unità militari di indigeni fu una soluzione quasi obbligata, a causa dell'enorme numero di prigionieri e della scarsità di soldati bianchi da impiegare come guardie. L’uso delle guardie di colore, spesso percepito come un insulto da parte dei prigionieri italiani, fu un elemento d'animosità nei campi di prigionia. In questo pesavano, nell'orizzonte culturale del prigioniero italiano, gli anni di propaganda razziale fascista che collocava le razze africani tra i gradini più bassi della scala evolutiva.
Lo sfruttamento di lavoratori bianchi, spesso sotto i comandi di ufficiali di colore britannici, non era ben visto dai coloni inglesi che vedevano in ciò un sovvertimento dell'ordine razziale nella colonia. Nonostante ciò, lo sfruttamento lavorativo dei prigionieri di guerra fu ritenuto necessario. A favore di ciò per gli italiani pesava la nomea di “costruttori di strade” e anche per questo furono destinati a lavori di questo tipo, a cominciare dalla costruzione della Great North Road, la sola linea di collegamento esistente tra le colonie inglesi dell'Africa centrale e di quella orientale. L'opera di costruzione di questa strada coinvolse 12.000 italiani provenienti da diversi campi di concentramenti (Kenia, Rhodesia del Nord e Tanganika). A causa del costo maggiore dei prigionieri italiani in Kenya rispetto alla manodopera indigena (nel 1942 la paga per un prigioniero italiano in lavori specializzati era di uno scellino al giorno contro i 3 pennies di un lavoratore africano), nel settore privato furono i secondi ad essere assoldati. Per chi collaborava, vi erano migliori condizioni di vita e maggiore libertà: contraddistinti da una divisa a sfondo kaki con scritto “Italy”, ricevevano paghe migliorie e venivano utilizzati dai comandi militari inglesi in lavori di manutenzione dei campi, agricoltura, costruzione, lavori in miniera e costruzione di strade. I benefici della collaborazione contrastano con l'immagine del prigioniero di guerra lasciataci dalla memorialistica ufficiale; come testimoniato dalla corrispondenza del prioniero parmense Enea Marcheselli, catturato ad Addis Abeba il 6 aprile 1940:
Dalla fine di Settembre del 1941 sono stato impiegato in Uffici Inglesi, da allora ne ho passati altri tre, uno meglio dell'altro. Questa occupazione mi ha permesso di guadagnare 9 Shs. in più degli altri alla settimana, che mi hanno permesso di conservarmi sempre in buona salute e di fare allo spaccio quegli acquisti che ci sono consentiti [...] Siamo alloggiati in buone baracche, vitto discreto, libera uscita tutti i giorni, due volte alla settimana il cinema, pagando Shs, 1/-, vestiti in kaki coloniale inglese, sette ore di lavoro al giorno. Insomma per sommi capi questo tutto. Al mattino sveglia alle sette, alle otto al lavoro sino all'una e dalle due alle quattro e mezza. Dopo cena una passeggiata, una partita a carte cogli amici sulla branda e alle 10 a letto. Ho imparato bene a...Lavare e a cucinare... quando ho qualche libro buono leggo o studio.
Alla fine del 1943 i collaboratori in Kenya erano 34.000 (su un totale di 49.000). La collaborazione in Kenya non fu una scelta immediata, in mancanza di ordini precisi da Roma, fu soltanto dopo l'armistizio che essa si diffuse tra i prigionieri italiani. Per evitare problemi interni a seguito della firma dell'8 settembre, i comandi inglesi divisero i prigionieri italiani in campi diversi: i non cooperatori furono concentrati nei campi di Londiani e Jinja (Uganda), mentre molti collaboratori furono inviati nel Regno Unito.