Militari catturati in Africa dagli statunitensi e i dati del parmense

Dove vennero catturati?
 

Con gli sbarchi dell'esercito americano iniziati l'8 novembre 1942, gli Stati Uniti catturarono il loro primo grande numero di prigionieri italiani. I comandi americani parlavano a metà maggio di circa 250.000 truppe italo-tedesche catturate in nord Africa. A causa delle difficoltà nel fornire il vettovagliamento necessario per mantenere i prigionieri, i comandi americani progettarono di spedire tutti i prigionieri negli Stati Uniti (fatto che avvenne solo per i prigionieri tedeschi). I prigionieri italiani furono in parte inviati in nord America e in parte rimasero in loco, a causa della necessità di manodopera in nord Africa che affliggeva le retrovie americane.

 

Dove vennero condotti?
 

In totale il numero di prigionieri italiani che arrivarono negli Stati Uniti nel corso del Secondo conflitto mondiale era di circa 50.000. I primi a superare l'Atlantico sulle navi “Liberty” arrivarono principalmente nei porti di New York, Norfolk, Boston ed altri porti minori sulla costa atlantica degli Usa. I primi campi di prigionia ad ospitare i prigionieri italiani erano: Atterbury-Indiana, Carson-Colorado, Clark-Missouri, Fort Leonard Wood-Missouri, Weingarten-Missouri, Florence-Arizona, Ogden-Utah, Phillipps-Kansas, Wheeler-Georgia, Crossville-Tennessee. Questi campi d'internamento erano posizionati all'intero del territorio degli Stati Uniti, con il palese intento di allontanare i prigionieri dagli stati della costa atlantica. Nei mesi successivi con l'aumento dei prigionieri italiani, diversi altri campi sorsero negli stati di Washington, Oregon, California, Mississipi, Alabama, Kentuchy, Ohio, Michigan, Nord Carolina, Sud Carolina, Virginia, Pennsylvania, New Jersey, Massachusetts e New York. Al totale dei prigionieri trasportati negli Stati Uniti va aggiunto quella parte dei prigionieri italiani che fu lasciata in nord Africa, come forza lavoro. La selezione tra i prigionieri che dovevano partire per gli Stati Uniti e coloro che dovevano rimanere in Africa avveniva tramite i comandi americani. I soggetti ritenuti di sentimenti filo-fascisti erano bollati come soggetti “insicuri”, facendo rotta oltre l'Atlantico, mentre i “sicuri” erano lasciati nel continente nero. In quest'ultimo caso il numero di prigionieri è incerto, a causa dell'estrema mobilità dei prigionieri catturati durante la campagna d'Africa e nelle successive campagne d'Italia. I prigionieri “sicuri” furono lasciati in nord Africa in quanto, una parte di essi entrò nelle divisioni italiane che seguirono la 5a armata in Italia e la 7a armata in Francia. Con la fine delle ostilità in Europa rimanevano nei campi d'Algeria e Marocco controllati dagli americani circa 10.000 prigionieri italiani. Sappiamo che nel settembre 1943 gli americani detenevano in Africa e Sicilia circa 82.000 prigionieri italiani; facendo dei prigionieri italiani negli Stati Uniti circa il 40% del totale detenuto dai comandi americani.

 

Trattamento prigionieri italiani da parte degli Stati Uniti
 

I prigionieri catturati in nord Africa nell'autunno del 1942 non furono i primi italiani detenuti negli Stati Uniti. Il governo americano aveva infatti internato alcuni civili italiani sospetti di sentimenti filofascisti sin dall'entrata in guerra. Vi erano inoltre 1.316 militari italiani ceduti agli Usa dagli inglesi, atto che andava contro la Convenzione di Ginevra. Il trattamento ricevuto nei campi di prigionia statunitensi fu generalmente molto soddisfacente. L'atteggiamento benevolo degli americani era giustificato, tra le varie cose, dalla presenza di una forte comunità italiana negli Stati Uniti. La comunità italoamericana, che rappresentava una parte importante dell'elettorato americano, influì positivamente sulle condizioni di prigionia dei propri connazionali. L’arrivo negli Usa per i prigionieri italiani rappresentò uno shock culturale per quella generazione cresciuta sotto i proclami mussoliniani,. Stupiva il benessere di massa figlio del New Deal, come testimoniato dal racconto di un prigioniero, Matteo Cau, in viaggio in treno verso il campo di Florence: “Ricordo la stazione di Memphis piena di negri, ce n'erano tantissimi, mai visti tanti negri tutti assieme[...] Altro motivo di stupore erano gli immensi parcheggi occupati da centinaia di macchine. Novità assoluta per noi italiani che allora di macchine civili in circolazione ne vedevamo ben poche”. Gli americani dimostrarono una concezione particolare della detenzione. La prigionia doveva convincere i soldati dei regimi totalitari della superiorità della democrazia americana. Le masse dei prigionieri dell'Asse dovevano essere rieducate ideologicamente, venendo messe a contatto con il benessere materiale prodotto dalle istituzioni democratiche. Questo atteggiamento pedagogico, puntava a trasformare i prigionieri militari in sostenitori di governi democratici. Mancò quindi, nell'opinione pubblica e nei comandi militare, quel sentimento punitivo presente invece nel contesto inglese e francese.

 

Condizioni lavorative e utilizzo della forza lavoro dei prigionieri italiani
 

Quando i prigionieri italiani venivano catturati dagli americani, così come nel caso inglese, venivano separati dai prigionieri tedeschi e giapponesi. Da principio gli americani furono fedeli assertori delle convenzioni internazionali. I prigionieri italiani ricevettero una paga dal Dipartimento di Guerra americano, fino alla fine della prigioni, venendo utilizzati per lavori manuali non connessi all'impiego bellico. Ogni prigioniero doveva lavorare 10 ore al giorno, ed avere ogni sei giorni 24 ore di riposo. La paga era fissata a 80 centesimi al giorno per ogni militare dell'Asse; per gli ufficiali la paga mensile era calibrata in base al grado: i tenenti avrebbero ricevuto venti dollari, i capitani trenta e dal maggiore al generale 40 dollari. Ogni prigioniero aveva diritto a 10 dollari in più per i buoni da poter spendere allo spaccio.

Dopo l'8 settembre 1943 i collaboratori italiani furono utilizzati anche nell'industria bellica che, assieme all'agricoltura, aveva bisogno di manodopera per mantenere alti i livelli di produzione. La decisione del governo americano avveniva, come nel caso inglese, senza avere firmato un trattato specifico con l'Italia; andando quindi contro la Convenzione di Ginevra che nell'art. 31 vietava categoricamente “che il lavoro fornito dai prigionieri avesse alcuna relazione con le operazioni militari”. Senza aver contattato il governo italiano, gli americani di fatto modificarono l'uso dell'art. 83 della Convenzione di Ginevra, il quale prevedeva che le nazioni firmatarie dell'armistizio potessero concludere accordi speciali per qualunque questione riguardante i prigionieri. Il governo italiano fu informato ma non si arrivò ad un accordo. Nei negoziati angloamericani, Badoglio chiedeva in cambio dell'autorizzazione alla sospensione degli articoli della Convenzione di Ginevra che gli italiani non fossero più ritenuti prigionieri, una richiesta ritenuta inaccettabile dagli Alleati. Di conseguenza il Dipartimento della Guerra americano approvò, il 12 febbraio 1944, senza il formale consenso italiano, il piano per la costituzione delle Italian Service Units (Isu), compagnie di lavoro da utilizzare per lo sforzo bellico negli Stati Uniti e nelle zona mediterranea. Le Isu composte in gran parte da prigionieri cosiddetti “sicuri” detenuti in nord Africa, accompagnarono la 7a armata americana nell'invasione della Francia del Sud e nella campagna d'Italia; operando nelle retrovie con funzione logistica. Mentre un contingente di 4.000 collaboratori italiani, sotto il comando americano, vennero prelevati dagli Stati Uniti ed utilizzati in Gran Bretagna in preparazione allo sbarco in Normandia. Un utilizzo delle Isu nel Pacifico ed in Asia fu evitato dal governo americano, principalmente perché il Regno del Sud non era in guerra contro il Giappone. Le Isu erano vere e proprie divisioni, formate da cinque ufficiali e centosettantasette soldati, addestrate e comandate dall'esercito americano per scopi militari. Lo status di prigioniero rimaneva però tale, ed il loro impiego prevedeva la copertura dell'arco giornaliero (10 ore al giorno per sei giorni alla settimana). Il loro contributo rappresento un apporto notevole alle operazioni alleate, permettendo al governo americano di utilizzare manodopera specializzata laddove fosse carente. In alcuni casi eccezionali il lavoro svolto dalle Isu fu premiato dai comandi alleati. L'appoggio alla causa alleata fu facilitato dalle condizioni privilegiate che godevano le Isu: maggiori libertà di movimento, vitto e salario migliori, assistenza medica completa, attività ricreative. Nonostante i benefici, tra i prigionieri italiani la possibilità di collaborare non riscosse da principio forte consenso. Dei circa 50.000 italiani internati negli Stati Uniti, circa 36.000 decisero di collaborare. Una percentuale alta nonostante il governo italiano non riconoscesse le Isu. La discrezionalità lasciata dai comandi americani e le voci discordanti sull'utilizzo delle Isu favorirono un'alta percentuale di non collaborazionisti. Sulla scelta della collaborazione, il governo svizzero (stato protettore dei diritti dei prigionieri italiani) denunciò le numerose minacce e coercizioni fatte dagli americani sui Pow (prisoner of war) italiani. Coloro che non collaborarono con le forze americane furono erroneamente ritenuti dai comandi americani filo-fascisti; venendo impiegati in lavori di pubblica utilità o lavoro nei campi. I non collaborazionisti furono spesso minacciati di essere espulsi dagli Stati Uniti e consegnati ai francesi – il che equivaleva a un peggioramento del trattamento – oppure venivano isolati dagli altri prigionieri in appositi campi, per poi essere inviati nel campo di Hereford, destinato ai prigionieri di dichiarata fede fascista. Le scelte che stavano dietro alla scelta di non collaborare furono: la mancanza di ordini precisi da Roma, la paura percepita di una ritorsione una volta tornati a casa, la fedeltà alla corona, l'adesione alla Rsi e così via.

 

I dati del parmense


Dai dati raccolti, i prigionieri del parmense detenuti dagli americani furono il 10% del totale di quelli catturati in Africa, la cui cattura avvenne tra il marzo ed il maggio 1943, ovvero durante l'ultima fase della guerra in nord Africa. In quanto catturati in un periodo di tempo molto ristretto, questo gruppo di prigionieri è uno dei più omogenei sotto il profilo militare. Molti infatti appartenevano ai medesimi reggimenti, i due più numerosi: 66a reggimento fanteria motorizzata divisione “Trieste” e la 132a reggimento carrista divisione "Ariete". Di questi 111 prigionieri il 73% fu inviato negli Stati Uniti. Una percentuale molto alta se consideriamo che a livello nazionale il 40% dei prigionieri italiani catturati dagli americani fu inviato oltre l`Atlantico. I prigionieri catturati in Africa e inviati oltre oceano erano giudicati dai comandi americani come agenti pericolosi e per questo da allontanare dalle operazioni di guerra. I prigionieri del parmense appartenevano in buona parte proprio a questa categoria di prigionieri “insicuri”. Due dati sembrerebbero ulteriormente dare ragione a questa ipotesi: l'alta percentuale di coloro che affermarono di non aver collaborato nei campi americani (Dei 86 prigionieri del parmense trasferiti negli Stati Uniti, 11 affermarono di aver collaborato durante la prigionia mentre 20 affermarono di non aver collaborato); l'alto tasso di prigionieri detenuti nei campi di Hereford (Texas), Monticello (Arkansas), Ruston (Lousiana). In questi campi di prigionia, localizzati negli stati centrali degli Stati Uniti, dove le immense distanze geografiche e la lontananza dai grandi centri portuali della costa atlantica e pacifica riducevano le possibilità di fuga., fu infatti internato il 51% dei prigionieri del parmense.

I nostri dati ci dicono che i prigionieri del parmense catturati dagli americani furono internati in diversi stati, tra cui: Arkansas, Arizona, California, Georgia, Hawaii, Louisiana, Massachussets, Maryland, Nebraska, New York, New Jersey, Oregon, Ohio, Pennsylvania, Texas, Virginia, Utah. La maggiorparte fu prigioniera in California e in Texas. In questo ultimo caso furono tutti internati nel campo di Hereford: costruito a metà del 1942, era il secondo più grande del Texas, avendo una capacità iniziale di 5.000 persone. Dal '42 al '45 furono internati in questo campo circa 7.000 italiani, tra questi nel settembre 1945 erano presenti tutti i 910 ufficiali non-cooperatori degli Stati Uniti. Un gruppo politicamente eterogeneo, ma accomunato per la scelta non-collaborazionista che lo rendeva famoso tra i soldati americani come “Dangerous fascist camp”.