Dai nostri dati, i prigionieri del parmense internati nel Regno Unito furono 167. Tra di loro, quasi un soldato italiano ogni due (44%), era stato catturato nei primi due anni di guerra. Una percentuale molto bassa se confrontata con quella dei prigionieri in Sud Africa, India o Africa settentrionale, dove i detenuti furono per oltre l'80% catturato nei primi due anni di guerra. Il restante gruppo era invece composto dai militari catturati nel maggio 1943, durante l'ultima fase della guerra in nord Africa. Il primo elemento interessante, analizzando i dati dei prigionieri del parmense è la loro dispersione territoriale. Essi furono suddivisi in decine di campi di prigionia lungo il Regno Unito, dalle isole del nord della Scozia fino alle coste dell'Inghilterra meridionale. Una parcellizzazione dei prigionieri così fitta, che fece dei soldati italiani una figura comune nelle campagne Inglesi. Questa suddivisione dei prigionieri era dettata dai bisogni derivanti dallo sfruttamento della forza lavoro.
L'alta percentuale di prigionieri inviata 1943 nel Regno unito riflette il diverso modo con cui gli inglesi percepirono l'utilizzo di questa forza lavoro. Con lo scoppio delle ostilità, l'Inghilterra si dimostrò impreparata per l'internamento di prigionieri italiani in patria, soprattutto a seguito della delle prime vittorie Alleate e della conseguente cattura di migliaia di militari. Con la distruzione di 1.4 milioni di tonnellate di mercantili da parte degli U-boat tedeschi nell'estate 1940, il governo inglese mutò l'approccio sulla questione. Tagliato il tonnellaggio mercantile, adesso l'Inghilterra doveva foraggiarsi da sola. Le vittorie conseguite contro gli Italiani in Abissinia e Africa settentrionale alla fine del 1940 potevano a questo punto offrire la manodopera richiesta a gran voce dal Ministero dell'Agricoltura. Essendo gli italiani prigionieri di una potenza nemica, vi doveva essere una selezione. Sir Alan Hunter (capo del War Office Directorate for Prisoner of War) nell'aprile 1941 suggeriva di prelevare “[prigionieri] provenienti dal nord Italia (non camicie nere) che si dimostrassero felici di lavorare nell'agricoltura e i cui sentimenti non erano a favore della guerra”. A convincere Churchill, preoccupato di mettere a rischio la sicurezza nazionale, fu la crisi nelle relazioni con l'Irlanda dal quale tradizionalmente attingeva manodopera a basso costo dall'Irlanda. Fu solo nel luglio 1941 che i primi italiani arrivarono in Inghilterra, inviati dal Medio oriente. La selezione fatta dai comandi militari inglesi prevedeva che: “i prigionieri fossero selezionati tra i contadini del nord Italia catturati in Libia per lavori di drenaggio, canalizzazione e opere di bonifica”. Anche se non tutti i prigionieri deportati in Gran Bretagna avevano esperienza come agricoltori, i militari Italiani si dimostrarono sicuramente più docili e ansiosi di lavorare rispetto alla loro controparte tedesca. Quest'ultimi infatti furono deportati per la maggior parte in Canada. L'invio di prigionieri italiani nel Regno unito fu progressivo: 7.000 per il 1941, 28.000 nel 1942 e di 36.000 nel 1943. Lo sfruttamento della forza lavoro italiana ebbe un grande impatto positivo, tanto da spingere anche molti privati a chiederne la manodopera. Nel marzo 1943 l'Imperial Prisoner Of War Comitee dichiarava: “il più ampio utilizzo (nei limiti della Convenzione) deve essere fatto del lavoro dei prigionieri di guerra, in modo da ottenere il massimo beneficio dalla loro cattura”. Pur essendoci, in questo sfruttamento, una forzatura degli articoli della Convenzione di Ginevra, il Governo italiano non lamentò mai l'uso che gli inglesi facevano dei loro soldati. Dopo l'armistizio, quando l'Italia divenne cobelligerante degli Alleati, gli inglesi continuarono ad utilizzare i prigionieri Italiani per i propri fini, senza un accordo formale tra le parti. L’economia inglese aveva disperatamente bisogno di forza lavoro, per questo il rimpatrio di questi prigionieri fu sempre ritardato dai comandi militari inglesi. Per evitare risentimenti, si cercò di migliorare e gratificare il loro lavoro, anche per questo i campi dove erano detenuti i collaboratori ebbero una presenza minore di sorveglianti, concedendo ai prigionieri più libertà. Restavano però alcuni divieti, come ad esempio quello di avere contati con la popolazione locale. Nell'aprile 1944 gli inglesi delinearono un progetto dove gli Italiani erano invitati ad arruolarsi in battaglioni di lavoro (Ilb), con funzioni “direttamente connesse con le operazioni di guerra”. I volontari sarebbero stati organizzati in unità di 250 uomini comandate da ufficiali Italiani. I battaglioni avevano uniforme di diverso colore con la scritta “Italy”, vitto, alloggio, paga migliori. Dal maggio 1944, quando il progetto di collaborazione entrò in funzione, il 60% degli Italiani si mostrò favorevole a collaborare, anche se l'adesione non fu assoluta. Si contarono inoltre diversi tentativi di evasione: nel campo 14 a Doonfoot (Scozia), ad esempio, il 15 dicembre 1944, 94 prigionieri riuscirono a scappare attraverso un tunnel sotterraneo. Furono tutti catturati nel giro di qualche giorno, ma il caso non fu isolato: casi di fuga dai campi di prigionia, caserme, dormitori non cessarono mai. In conclusione, il contributo della manodopera dei prigionieri italiani fu di grande aiuto allo sforzo bellico inglese.